«Non temete io sono con voi», la nuova Lettera pastorale di mons. Nosiglia nel tempo del coronavirus

Il titolo e la copertina di questa Lettera vogliono richiamare la realtà forte e vera della nostra vita: il
Signore è con noi sempre; ci è vicino, ci guida e ci
ammaestra se sappiamo riconoscerlo e ascoltarlo.

Ecco il «non temete»; ed ecco la scena – il significato – di
Emmaus. Tutta la nostra vita è un cammino, a volte bello e gioioso, a volte faticoso e difficile, a volte ancora tragico che ci abbatte e scoraggia perché sembra di
camminare nel buio senza una meta: l’esperienza dei
due discepoli in viaggio verso Emmaus offre spunti
molto significativi e concreti per la nostra vita.

Cari amici

ogni anno a settembre ho sempre inviato alla diocesi di Torino una lettera pastorale che riassumeva le indicazioni discusse e proposte dall’Assemblea diocesana. Quest’anno non abbiamo potuto celebrare l’Assemblea, ma ho ritenuto di farvi giungere lo stesso una lettera, più breve ovviamente, che potesse rappresentare un vademecum di riferimento per il prossimo anno pastorale 2020-
2021 sia per la diocesi di Torino sia per la diocesi di Susa.
Ho voluto, come sempre, scegliere per titolo un motto biblico, che può diventare lo slogan da tenere in considerazione per gli impegni che ci attendono dal mese di settembre. Il titolo è un invito che Gesù spesso rivolge ai suoi discepoli:

«NON TEMETE, IO SONO CON VOI» (cfr. Mt 28,20)
Il timore di una nuova ondata del virus serpeggia ancora nel cuore di tanti e non è certo frutto solo di paura, ma di realismo: il contagio infatti sembra non dare tregua nel mondo e anche nel nostro Paese emergono situazioni che ci preoccupano. Il Signore ci invita a non aver paura. Malgrado i pericoli e le difficoltà,

egli è presente e non ci abbandona al nostro destino. La fede ce lo conferma e ci chiede di intensificare la nostra preghiera, ma anche la nostra solidarietà e il nostro impegno per aiutare e sostenere quanti soffrono e necessitano non solo di incoraggiamenti a parole, ma di fatti concreti di fraternità e di amore.
Mettiamoci dunque in ascolto di un brano del Vangelo nel quale il “Non temete” si colloca all’interno di una situazione di grave pericolo, per gli apostoli e in
particolare per Pietro.

Il testo biblico è il seguente: Matteo 14,23-33.
«Congedata la folla, Gesù salì sul monte, in disparte,
a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già molte miglia da terra ed
era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul
finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio,
sono io, non abbiate paura!”. Pietro allora gli rispose:
“Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle
acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca,
si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma,
vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando
ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù
tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede,
perché hai dubitato?”. Appena saliti sulla barca, il vento
cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”».

La fede è dono e forte invito a vincere
la quotidiana battaglia della vita


Gesù sta sul monte solo a pregare e vi rimane per molto tempo, fino alla notte.
È un fatto usuale che troviamo spesso nei vangeli: Gesù si apparta dalle folle e anche dai discepoli, quasi a voler affermare che solo in luoghi deserti e silenziosi è possibile pregare, stabilire con il Padre suo un rapporto intimo, profondo e personale. La sua vita è carica di servizio agli altri (non ha nemmeno il tempo di mangiare: cfr. Mc 6,30-33), perché tutti lo cercano; ma Gesù sa bene che senza preghiera tutto è inutile e il fare non produce frutto. Sta lassù fino alla quarta vigilia della notte, dunque per un tempo prolungato; poi, vedendo i discepoli alla presa con il lago in tempesta, va verso di loro camminando sulle acque.

Il mare in tempesta nella Bibbia è simbolo della potenza del Maligno e in generale di avversità che ostacolano l’uomo verso la pienezza di libertà e di vita.
Questo miracolo vuole annunciare che Gesù è più forte delle potenze avverse della natura; è più potente e domina anche il male, il peccato e ogni realtà e situazione che ostacolano la via dell’uomo e gli impediscono di giungere alla riva, di raggiungere i traguardi cui tende nel suo lavoro, nella sua vita.
I discepoli credono che sia un fantasma e gridano dalla paura, ma Gesù li rassicura: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Già il fatto di aver paura ci dice
qualcosa sui “limiti” della fede dei discepoli: una fede che è scarsa, o che non è ancora cresciuta. Anche la sera stessa di Pasqua, racconta Luca, Gesù appare ai Dodici, che credono di vedere un fantasma (cfr. Lc 24,36-42); Egli dovrà mangiare davanti a loro per assicurarli di essere proprio lui, il Maestro che avevano
visto morire sulla croce.
Nel nostro brano, Pietro – sempre focoso e generoso nei sentimenti e nell’azione – vuole quasi mettere alla prova Gesù e gli chiede di camminare verso di lui sulle acque. E Gesù lo chiama: «Vieni!». Dunque, è Cristo che rinnova la sua chiamata a seguirlo, anche se in mezzo ad una situazione difficile ed umanamente pericolosa. La fede è dono e chiamata da parte di Gesù: solo rispondendo al suo invito è possibile camminare sulle acque, esprimendo la fede, che consiste nel tenere ben fisso lo sguardo su di lui.

La fede è messa alla prova

Qui inizia la prova della fede di Pietro, fede che è sempre messa alla prova, poiché non è mai un cammino facile e privo di sofferenza e di fatica. Abramo è posto davanti alla richiesta di sacrificare il suo unico figlio (Gen 22,1-18); Sara è chiamata a credere che, ormai fuori dall’età fertile, darà alla luce un figlio (Gen 17,15-22); Mosè è invitato da Dio a liberare il suo popolo con il suo semplice bastone da pastore (Es 7); Maria nel turbamento crede nell’annuncio di diventare madre senza il concorso d’uomo (Lc 1,26-38); i discepoli sono posti di fronte alla croce del Signore, segno solo apparente della sconfitta umana del
suo ministero (Mt 16,21-27).
Pietro sperimenta in se stesso la prova della fede e cade nel rinnegamento del Maestro. Per questo forse esorta i cristiani a resistere alle prove della fede, sapendo che essa è come l’oro che, per essere purificato, deve passare attraverso il fuoco: «Siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’
di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a
vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur
senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia
indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime» (1Pt 1,6-9).

La prova della fede per un cristiano oggi può consistere in varie esperienze e situazioni di vita: una malattia incurabile o comunque dolorosa e incerta umanamente nel futuro risultato; la tiepidezza e aridità spirituale che lo spingono a lasciarsi vivere trascinato dalle cose da fare, ma senza slancio ed entusiasmo;
la scarsa cura di sé e della propria interiorità con spazi adeguati di sosta e di silenzio; il dubbio di aver sbagliato tutto e di non avere più il tempo di rimediare;
la preghiera fatta al Signore senza ricevere la risposta positiva che si attende…
È allora che più forte deve farsi il grido della preghiera: «Signore, salvami!»

Credere senza riserve all’impossibile di Dio

Pietro tiene dunque lo sguardo su Cristo e cammina sulle acque. Non lo fa per spavalderia o per orgoglio, ma perché è stato invitato da Gesù stesso e va verso
di lui. Però, vedendo il mare in tempesta e il vento forte, ha paura e comincia a sprofondare. Allora grida la sua preghiera: «Signore, salvami!».
Si può pensare che sia umano e logico questo atteggiamento; che non c’entri la fede, perché si tratta di prendere coscienza di quello che si sta facendo e di
affrontare una situazione difficile, superiore alle proprie forze. In realtà, come dirà poi Cristo, rimproverando Pietro, si tratta proprio di una mancanza di fede:
questa è la causa che lo fa sprofondare. Il Vangelo afferma che ciò avviene quando Pietro vede il forte vento; soffermandosi sulle avverse condizioni del
tempo, non guarda più Gesù. La razionalità umana, la paura di morire, il giudizio sulla situazione in cui si trova in quel momento prevalgono sulla fiducia in Cristo.
La discriminante tra fede e non fede o tra fede forte e fede debole sta tutta qui: abbiamo sempre delle riserve dentro di noi. Diciamo di credere, ma in fondo
cerchiamo di cavarcela da soli e abbiamo una profonda stima di noi stessi. Dio ci serve quasi come un’aggiunta, un “di più” che convalida le nostre scelte, sostiene le nostre forze, ci aiuta a capire quello che noi già facciamo con cura.

Dimentichiamo quello che ci dice Cristo: «Senza di me non potete far nulla»; come anche: «Il tralcio non può produrre uva se non resta unito alla vite» (Gv 15,4-5).
Quel “nulla” pesa come un macigno sul nostro orgoglio e sulla presunzione di cavarcela in ogni modo, anche da soli.
«Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»: Gesù salva Pietro, non lo lascia affondare; ma lo rimprovera, anche se benevolmente. Poca fede: dunque non incredulità assoluta, ma pur sempre un atteggiamento che denota quanto difficile sia credere nell’impossibile di Dio. Chi ha fede è senza dubbio Gesù. Egli resta fedele al suo amore verso Pietro e alla sua chiamata e lo salva.
Su questa fedeltà di Dio si fonda dunque anche la nostra debolezza, che viene come esaltata proprio dall’amore di Dio, fedele nonostante i nostri peccati ed infedeltà.

Paolo afferma: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10), perché, riconoscendo di non poter vincere la battaglia contro il male, si affida a colui che gli dice: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta
pienamente nella debolezza» (2Cor 12, 9).

L’esperienza di Pietro: specchio
della nostra realtà di discepoli del Signore

Guardando alla nostra vita, possiamo riconoscerci in Pietro per una serie di motivi.
Entusiasmo iniziale. Abbiamo avviato la nostra vocazione cristiana – sia essa quella battesimale, matrimoniale o sacerdotale o di consacrazione religiosa
con gioia ed entusiasmo e siamo stati capaci di camminare anche sulle acque delle difficoltà e delle prove, perché ci ha sorretto sempre la motivazione fondamentale della nostra scelta: la chiamata del Signore, il suo amore, lo sguardo teso verso di lui.
Scoraggiamento. Col passare del tempo, come la nebbia si insinua via via nell’aria, così lo scoraggiamento penetra nel cuore. Si tratta di un fattore umano con cui bisogna sempre fare i conti. Sull’esempio di Pietro, siamo tentati di guardare di più alla nostra condizione di vita, alle situazioni complesse da affrontare, alle crescenti difficoltà che lo stare insieme comporta, allo scemare delle forze interiori ed esteriori.
L’aiuto del Signore. È un aiuto importante, necessario, incoraggiante. Possiamo sperimentarlo nella nostra vita in mille modi, ma in particolare nel sacramento della Riconciliazione, il sacramento della rinascita continua, del risorgere dal peccato che ci abbatte. Spesso infatti tutti gli elementi di difficoltà o aridità spirituale e comunitaria sono determinati dal non ricorrere con assiduità e sincerità di cuore a questa fonte perenne di grazia purificatrice e salvifica, propria della riconciliazione sacramentale.
La preghiera. È l’elemento decisivo per rinsaldare la fede. «Signore, salvami!»: questo grido dell’uomo non è ignorato da Cristo. Egli non è mai distante da noi; siamo noi invece che, con il peso del nostro mondo di carne, lo teniamo distante e ci illudiamo di risolvere i problemi da soli. Nel libro Dono e mistero il Papa San Giovanni Paolo II parla del costante contatto con la santità di Dio, che ci sprona a diventare santi, ed afferma che per questo si ha sempre bisogno di pregare. La preghiera sorge dalla
santità di Dio e nello stesso tempo è la risposta a questa santità (cfr. Dono e mistero, IX). Parafrasando le parole del Papa, possiamo affermare che la preghiera crea il
cristiano e lo salvaguarda da ogni pericolo. Sì, dobbiamo essere anzitutto uomini di preghiera, convinti che il tempo dedicato all’incontro intimo con Dio è sempre il
meglio impiegato, anche per gli altri e per la Chiesa tutta.

Il Mistero della fede che ci aiuta a credere

La nostra fede si radica, si consolida e cresce a partire e dentro la preghiera eucaristica, il Mistero per eccellenza della fede. Lì troviamo la fonte prima del nostro essere
uniti al Padre per mezzo di Cristo nel suo Spirito. Da questa unità scaturisce tutta
l’efficacia redentiva dell’Eucaristia, sacrifico pasquale del Signore per la salvezza di
tutti gli uomini, sacrificio per la remissione dei peccati, di quelli del sacerdote che
celebra e di ogni fedele che vi partecipa, come ci dice la Lettera agli Ebrei.

L’Eucaristia non può mai essere autoreferenziale, ma sempre aperta al dono di sé per il Padre e per la Chiesa tutta. Così ha vissuto Gesù la sua Eucaristia, il suo
sacrificio pasquale: «Padre non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42); «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). In questo sta la vera fede, che si nutre di una preghiera fatta non solo di parole ma di gesti, comportamenti, azioni, atteggiamenti e scelte di servizio alla comunità: pregate sempre, ci dice Gesù, senza stancarvi. Agostino si chiede: come posso pregare sempre?
E risponde: solo se il nostro desiderio di Dio cresce sempre più e si radica nel cuore e nella vita, possiamo ben dire che tutto ciò che facciamo diventa incontro
con Lui e dunque preghiera.

Il credere è il “noi” della comunità

L’ultimo elemento è la professione di fede dei discepoli: «Davvero tu sei Figlio di Dio!». La fede ha una dimensione comunitaria, oltre che personale. Gli altri
si uniscono a Pietro ed egli si unisce agli altri nel proclamare la stessa fede in Gesù, quasi ad affermare che nella fede ci si aiuta vicendevolmente, perché la
fede di uno serve all’altro e supplisce alle difficoltà che può provare. La fede diviene così una comunicazione reciproca, un “noi crediamo” che è poi quello
ecclesiale di cui ci parla Paolo agli Efesini: «Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (4,5).
Per alimentare questa fede comune abbiamo diverse strade e risorse cui attingere: la Parola di Dio accolta, meditata e proclamata non solo per gli altri ma per
se stessi; l’insegnamento della Chiesa; la preghiera delle Ore (azione liturgica comunitaria) e il Santo Rosario… Ma occorre forse usufruire oggi anche di altri
modi semplici e immediati, come possono essere gli incontri di gruppo in molteplici occasioni, in cui ci si può aprire con sincerità al dialogo sulla fede e sulla
vita spirituale, scambiandosi così doni, dubbi, esigenze reciproche.

È questa forse la via più difficile da percorrere, perché nell’incontro con gli altri prevale spesso il conformismo, l’esteriorità, la paura di essere giudicati, valutati,
poco considerati. Non svelo una novità, perché già gli apostoli discutevano sempre tra loro chi fosse il più grande e Gesù ha dovuto faticare molto per insegnare
loro che il più grande è colui che si fa piccolo e ultimo in mezzo ai fratelli e sa di avere bisogno di tutti per crescere nella fede (cfr. Mc 9,33-41). Occorre dunque
convincersi che gli altri non sono giudici o concorrenti, ma parte dello stesso Corpo che ci fa comunità ecclesiale.

Maria: modello di fede accolta, vissuta, testimoniata

Termino questa lectio biblica con un richiamo a Maria, perché ella è un punto di riferimento prezioso, in relazione alla nostra vita di fede. Lo possiamo
comprendere bene nell’espressione di Elisabetta: «Beata te che hai creduto» (cfr. Lc 1,45) e nella risposta di Maria attraverso il Magnificat (Lc 1,46-56).
La beatitudine della fede di Maria, per cui tutte le generazioni la proclamano Madre di Dio, sta nella sua umile ed obbediente accettazione del disegno di Dio. Ella si arrende allo Spirito che la circonda con la sua ombra e la rende feconda del Figlio di Dio.
Il “sì” dell’Annunciazione non è che l’inizio di un pellegrinaggio della fede di Maria, in cui ella avanza fedelmente nella comprensione della volontà del
Padre e del mistero del Figlio suo, fino alla croce, a cui partecipa associata alla sofferenza redentrice di Cristo Signore. Ci ricorda il vangelo di Luca (cfr.
2,51): Maria conservava nel cuore tutte le cose che le capitavano, liete – come l’Annunciazione – e dolorose – come la fuga in Egitto e la passione e morte del Figlio suo – e a volte anche incomprensibili – come l’episodio di Gesù nel Tempio di Gerusalemme.
«Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente», canta Maria nel Magnificat (Lc 1,49): questa consapevolezza di Maria, che esalta l’azione di Dio in lei, è la stessa che deve avere ognuno di noi, perché la nostra fede è azione di grazia del Signore per noi e con noi. Per cui, possiamo cantare anche noi il Magnificat riferito alla nostra vocazione di discepoli e ai doni di cui il Signore ci ha dotato.