Avvento,meditazione di mons. Cesare Nosiglia

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DA RICCO CHE ERA SI E’ FATTO POVERO
Meditazione dell’arcivescovo di Torino per l’avvento 2020
Cari amici,
Desidero affrontare il tema della vita buona del consacrato e consacrata a partire da
Cristo e da quei tratti caratteristici della sua vita di Figlio di Dio incarnato e unto di Spirito
Santo. E uno di questi che appare con evidenza nel vangelo è la sua povertà che non
significa solo mancanze di attaccamento ai beni della terra ma scelta fondamentale di vita
buona per sé e per i suoi discepoli.
Il testo biblico di riferimento è quello di Filippesi 2, 5-11.
Notiamo subito che il discorso sulla povertà è collegato ad una decisione precisa di
Cristo: si è fatto povero, e non è solo nato e vissuto povero: “non considerò un tesoro
geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso…”. Ha deciso
volontariamente di farsi povero per rispondere alla richiesta del Padre di entrare nel
mondo.
Un altro elemento dell’inno è lo stretto nesso tra povertà, servizio, umiltà ed
obbedienza. Si tratta di realtà legate l’una all’altra: assumendo la condizione di servo
Cristo si umilia facendosi obbediente.
Infine, la «kenosis» (l’abbassamento) del Verbo di Dio che si fa uomo, culmina con la
povertà più radicale, quella della croce.
Per voi consacrati la kenosis consiste in un oscuramento della propria soggettività, in
una apparente spersonalizzazione di se stessi, per lasciar trasparire il volto, le mani ed il
cuore di Cristo: “Il consacrato è vero – diceva Mazzolari – quando scompare, quando
dietro di sé lascia indovinare e trasparire Qualcuno”. Allora ogni autoreferenzialità e
protagonismo viene superato, ed anche i confronti con gli altri confratelli e consorelle,
quando ci accorgiamo di non essere all’altezza delle loro doti, non ci feriscono più di tanto.
Il biografo del santo Curato d’Ars scrive: ”il suo messaggio vero fu questo :inserirsi ed
accogliere con gioia il posto dove era stato mandato (piccolo e sperduto paese) sempre
più completamente e con convinzione, senza scoraggiamenti interiori e riserve di alcun
genere”.
E’ importante tener presente il legame tra povertà e umiltà, perché già il Vangelo lo
pone in forte risalto nelle Beatitudini di Matteo («beati i poveri in spirito»). A questo
proposito abbiamo un’ampia letteratura dei padri della Chiesa, che sottolineano come la
più grande ricchezza dell’uomo è se stesso, il proprio io, che difende ad ogni costo e con
orgoglio, e dal quale non vuole staccarsi mai.
E’ questo il punto decisivo che Cristo raggiunge ed aggredisce nel profondo del cuore,
per scardinarlo dal di dentro: lui si abbassa fino ad essere schiacciato nella sua dignità di
persona e nel proprio io, fino alla umiliazione più estrema, quella della croce, accettata
come via di ricchezza somma, mentre l’uomo la vede come la massima povertà.
I poveri del Vangelo, dicono i padri, sono coloro che scelgono la povertà stessa di
Cristo: non attaccano il cuore ad alcun bene terreno o persona, nemmeno a se stessi e a
quell’amore di sé che scaccia dal cuore l’amore di Dio e degli altri, rinunciando persino alla
propria volontà per accettare quella di Dio, alla propria vita per seguire Cristo nella morte
della croce.
Clemente Alessandrino, a questo riguardo afferma: “Il Signore non dice solo ‘beati i
poveri’ e nient’altro, ma: beati i poveri che hanno voluto diventare tali per la giustizia,
coloro che hanno disprezzato gli onori di quaggiù al fine di acquistare il vero e unico
Bene”. I poveri in spirito sono quindi quelli che hanno scelto la povertà materiale
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distaccandosi dai beni della terra, ma anche dagli onori e dalle soddisfazioni dell’amor
proprio.
E così Lazzaro è certamente povero, ma lo sono anche il pubblicano e la peccatrice,
che si umiliano davanti a Dio e agli altri.
In pratica per il consacrato la povertà è il segno del abbandono totale alla volontà del
Padre, e dice, perciò, riferimento a Dio, Bene supremo, più grande di ogni altro bene,
anche della vita. Solo chi contempla e vive il mistero di Dio, quale unico tesoro e premio
eterno, può capire e realizzare la povertà, usando dei beni terreni con grande libertà
interiore e distacco.
COSA COMPORTA LA SEQUELA DI CRISTO POVERO E UMILE
Ce lo spiega chiaramente il Vangelo della sequela, in Luca 9,57-62.
“Mentre andavano per strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Gesù gli
rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo
non ha dove posare il capo”. A un altro disse: “seguimi”. E costui rispose: “Signore
concedimi di andare a seppellire mio prima mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i morti
seppelliscano i loro morti; tu va e annunzia il regno di Dio”. Un altro disse: “Ti seguirò,
Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa”. Ma Gesù gli rispose:
“Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di
Dio”.
Tre esempi di chiamata e di sequela che ci coinvolgono profondamente.
Il primo è mosso da entusiasmo e si offre spontaneamente di seguire Gesù che, con
grave serietà, gli presenta alcune condizioni di vita, che sono poi quelle del Maestro che
intende seguire: la sua vita è come quella di un fuggitivo, non ha patria, né casa, né
famiglia o luogo dove riposare. Il paragone con le volpi è singolare, ma efficace, e
sottolinea l’insicurezza che il discepolo deve mettere in conto: persino le volpi hanno una
tana, e gli uccelli un nido, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo.
Il secondo è invitato da Gesù stesso a mettersi alla sua sequela. Ma la sua risposta è
titubante: desidera aspettare che il padre malato e avanzato negli anni (tale è il senso del
“seppellire mio padre”) arrivi alla fine della sua vita. Rimanda perciò nel tempo la risposta.
Gesù afferma che niente e nessuno deve impedire una risposta immediata e generosa
all’invito del Signore. Per questo dovere familiare si potranno trovare altre persone: quelle
che non sono chiamate, o spiritualmente morte, nel senso che non hanno il coraggio di
lasciare tutto e seguire Gesù. Tutto passa in seconda linea per coloro che sono chiamati.
Persino le persone più care diventano una ricchezza alla quale non attaccare il cuore.
Il chiamato ha un solo dovere: annunciare il regno di Dio. Tale compito deve venire
prima di ogni altro dovere, anche se preciso e forte come quello familiare.
“Chi vuole venire dietro a me e non odia suo padre e sua madre, la moglie, i figli, i
fratelli, le sorelle, e persino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26-27).
Il terzo caso è simile al primo, e in parte anche al secondo, perché si offre di seguire
Gesù ma a delle condizioni: attardarsi a salutare quelli di casa. Il “subito” della risposta è
essenziale per decidersi alla sequela.
Per questo Gesù respinge la sua richiesta con una similitudine che ha il carattere di un
proverbio tratto dal lavoro dei campi: solo chi dedica tutto il cuore e tutto se stesso al
Regno di Dio è adatto ad entrarvi; chi si attarda, e guarda indietro, resiste alla chiamata e
rischia di non partire mai. Come il contadino, che guida i buoi che arano e non può
guardare all’indietro se vuole andare dritto alla meta del lavoro che ha intrapreso.
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Porsi al seguito di Gesù significa dunque essere strappati ad una esistenza assicurata e
rassicurante, saper rinunziare anche al pane quotidiano, al caldo di una casa, a un punto
di riferimento; distaccarsi dalle persone anche le più amate e care e saper rinunziare ad
ogni comodità familiare per partecipare alle stesse condizioni di vita del Maestro e al suo
stesso destino. Anzi più ancora. «Poiché il discepolo non è di più del Maestro, né il servo
del suo padrone», chi segue Gesù deve essere pronto, come lo è stato anche il Maestro,
ad accogliere su di sé l’odio, il disprezzo, la persecuzione, e persino la morte.
E siccome queste esigenze sono dure e difficili, ogni discepolo di Gesù deve esaminare
bene se stesso, e verificare se è in grado di affrontare tali privazioni, e rinunciare se si
rende conto che non gli è possibile. Altrimenti andrà incontro ad una catastrofe nella quale
è compresa la sua perdizione finale. La sequela è dunque frutto di una chiamata di Gesù,
e decisivo è non soltanto imitare il Maestro, ma assumere anche la sua vita, vivere le sue
condizioni, partecipare al suo destino. E niente deve essere considerato più importante del
compito affidato: l’annuncio del Regno.
Può seguire Gesù chi riconosce che Egli è l’Inviato del Padre, il Signore, e mediante la
fede sa vedere nel suo destino di servo umiliato fino alla morte il disegno di Dio, al quale
anche il discepolo stesso è chiamato a partecipare.
Queste esigenze, chiamate anche radicalismo evangelico, non riguardano tutti i
discepoli, ma solamente coloro ai quali il Signore fa comprendere di essere chiamati a
seguirlo più da vicino. Non a tutti Gesù chiede di rinunciare ai beni, al matrimonio, alla
famiglia e al proprio paese, ma solo a coloro ai quali il Padre fa questo dono e si aprono
ad una vocazione speciale e unica.
Per questo, anche il celibato e la verginità per il Regno sono forme e vie di autentica e
totale povertà, e come tali vanno vissute, perché conformano a Cristo povero e casto. Non
sono semplicemente in funzione del servizio, ma decisive per vivere l’amore con lo stesso
cuore indiviso di Cristo.
Infine, la prova suprema della sequela di Gesù nella povertà sta nel martirio: sia di colui
che giunge a dare per Cristo la vita, come di chi accetta ogni giorno le sofferenze, i rifiuti e
le persecuzioni in nome di Cristo, per essere in tutto simile a lui.
I martiri, perciò, ci precedono su una strada che è di ogni discepolo, e che prima o poi,
in modi e forme diverse, siamo tutti chiamati a percorrere, perché come Cristo ha donato
la vita per noi, anche noi dobbiamo donare la vita per lui.
ALCUNE PISTE DI MEDITAZIONE
1 La sequela di Cristo povero è sempre stata ritenuta, insieme a quelli che chiamiamo i
consigli evangelici, propria della vita religiosa. Non si tratta, pero’, di un di più, di
qualcosa di accessorio alla vocazione . E’ qualcosa di essenziale e determinante. Nel
discernimento della vocazione si dà tanta importanza al problema della castità e
verginità e forse poca attenzione e cura a quest’aspetto che oggi è invece decisivo per
la vita e la missione del consacrato in mezzo al popolo di Dio.
Lo stesso vale per chi già esercita i tre consigli evangelici e mostra con le sue scelte,
giorno dopo giorno, di non essere attaccato ai beni della terra.
Quante volte le persone, che ci stimano proprio per questo, dicono: “Tu non fai la
suora o il frate per mestiere, ma per amore”. E’ questo il passaggio fondamentale
che dobbiamo curare in ogni impegno: testimoniare che ciò che ci spinge è il desiderio
di un dono gratuito, il “propter homines”. Ed è un traguardo sempre più alto, che esige
continue tappe di avanzamento spirituale. La buona volontà non basta. Se manca
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l’amore, che trascina sempre e comunque in avanti, che tutto spera, tutto sopporta, tutto
offre e tutto rinnova, gli orizzonti si chiudono in una impersonale prestazione di cose da
fare, anche se sacre o di ordine spirituale.
Dobbiamo riconoscere che oggi la vita di un consacrato è sottoposta ad una
tentazione strisciante, che ne stempera la radicalità. Una vita troppo comoda e “sicura”,
non alternativa allo spirito del mondo, può accontentare chi cerca una sistemazione di
se stesso, un ruolo autorevole o qualcosa da fare per sentirsi utile, ma non regge lo
slancio di un’esistenza donata per amore di Cristo, e, come Lui, perdendosi per gli altri.
Alla domanda degli apostoli: “ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che
cosa otterremo in cambio?”, Gesù risponde con chiarezza: “Chiunque avrà lasciato
padre, madre, fratelli o sorelle, casa e campi per il mio nome…”. E’ questo “per il mio
nome” che è decisivo per ogni vocazione, per la vita del consacrato, prima ancora che
per il servizio che è chiamato a svolgere.
Se siamo convinti e motivati su questa “ricompensa” dovremmo agire di
conseguenza, e non temere, né il presente né il futuro, ma affidarci con serenità alla
Provvidenza di quel Padre che predichiamo vicino ad ogni necessità dei suoi figli.
2 La cultura nella quale siamo immersi accentua il timore del futuro, o meglio esige che il
futuro sia garantito da sicurezze che permettano di affrontalo con tranquillità. Questa
preoccupazione, che guida poi le scelte concrete nell’utilizzo dei soldi, tarpa le ali della
povertà evangelica ed impedisce di guardare al di là dell’orizzonte immediato, per
aprirsi alla speranza che si fonda in Dio e va oltre l’oggi ed il domani dell’uomo: la
speranza dei beni ultimi, quelli che rimangono, mentre i penultimi passano, come ci
ricorda spesso la colletta della Messa : «fa, o Signore, che pur usando dei beni
terreni, teniamo lo sguardo fisso ed il cuore proteso ai beni eterni».
Fidarsi di Dio significa scommettere la propria vita, tutta la propria vita, su di Lui. In
ogni chiamata biblica vediamo l’uomo che protesta la sua debolezza di fronte alle
esigenze che Dio gli pone innanzi, ma risponde fidandosi della Parola del Signore: “Io
sono con te, non temere”. E si butta senza riserve nell’avventura della chiamata. Il
rischio della fede fa parte della chiamata e sostiene la risposta, ma è un rischio fondato
sulla fedeltà di Dio e non garantito dalle deboli forze umane. Questo principio vale
anche per l’uso dei beni terreni, e deve sostenere l’intera vita spirituale di coloro che
sono stati scelti ed hanno detto il loro sì al dono della chiamata.
3 Si diventa poveri amando i poveri, ed imparando da loro la via della autentica povertà di
Cristo. Sarebbe illusorio, infatti, discettare astrattamente sulla povertà se non
tenessimo conto che abbiamo ogni giorno la fortuna (perché è tale per ciascuno di noi)
di confrontarci direttamente e concretamente con la povertà vissuta dalle persone che
incontriamo. Sono i nostri maestri, coloro che ci insegnano a vivere da poveri. Sono,
come direbbe S. Vincenzo, i “nostri padroni”, e a loro dobbiamo riconoscenza, perché
ci permettono di sfidare la nostra ricchezza, sia materiale che spirituale, della quale
neppure più ci accorgiamo, tanto siamo sazi. “I poveri li avrete sempre con voi”, ci ha
detto Gesù, e questo dovrebbe inquietarci, soprattutto quando non vediamo più i poveri
vicino a noi, e non li guardiamo più negli occhi perché li affidiamo a chi li accoglie e se
ne prende cura, siano la Caritas, la San Vicenzo o qualche altro gruppo.
Le nostre stesse strutture, ampie e belle, sono per lo più destinate alla comunione tra
noi o al culto e a un qualche servizio, alla Parola e all’Eucaristia. Tutte realtà che fanno
parte delle due mense, ma alle quali manca la terza, quella decisiva: la mensa della
carità. I poveri stanno fuori, o sono solo gli ospiti di passaggio, nelle nostra vita
quotidiana e nei nostri incontri. A questo riguardo vi richiamo a quanto ho scritto nella
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ultima lettera pastorale “Non temete io sono con voi” in cui ho indicato, come
destinataria privilegiata di solidarietà e di accoglienza in tutte le sue necessità, la
famiglia, che rappresenta anche nell’attuale momento ecclesiale e sociale la realtà più
debole ed indifesa, anche sul piano civile, e per la quale più capillare e continua deve
essere la cura e l’attenzione da parte delle nostre comunità.
4 La povertà del consacrato è oggi molto legata a quella della Chiesa. Il peso dei “beni”
accumulati nei secoli, le strutture che chiedono di essere mantenute, i continui lavori di
ristrutturazione o di ampliamento dei locali … tutto ciò fa apparire la Chiesa ricca di
beni, anche se di fatto appartengono alla comunità.
Per questo occorre, nel gestire questo patrimonio, la massima trasparenza, e, mediante
gli organismi a ciò deputati, il coinvolgimento più largo e partecipato possibile, ma
anche l’impegno ad adoperarli per i poveri e gli ultimi.
E’, in ogni caso, necessario rifuggire dalla tentazione propria del mondo: la logica del
profitto e del produrre. Essa stempera la profezia e lascia intuire che i criteri usati
nell’amministrazione delle risorse finanziarie o dei beni immobili non differiscono da
quelli del mondo. Se non siamo alternativi veniamo anche noi fagocitati da queste
logiche, e giustifichiamo tutto, magari con motivazioni pastorali o con le necessità della
comunità.Si dice che è giunto il momento di tornare all’essenziale. Questo vale non
soltanto per le scelte pastorali, ma anzitutto per quel che concerne il nostro essere
consacrati, puntando a fare della nostra vita un esempio di credenti che si fidano e si
affidano non alle sicurezze umane, anche se legittime, ma all’unica sicurezza che è la
fede nella potenza unica della Parola, e ad un appassionato e radicale amore al
Signore e coloro in cui Lui si fa presente che sono appunto i poveri.
In questo l’Eucaristia che celebriamo ogni giorno ci può aiutare. Essa è l’altare della
croce che siamo chiamati a vivere in una dedizione assoluta al Vangelo, nella
comunione fraterna accolta con gioia, anche se faticosa, nella missione di andare a tutti
e ad ogni fedele, facendo della nostra vita una icona vivente del Cristo povero ed
obbediente fino alla morte di croce.
In sintesi sento di dire a me stesso e a voi:
La povertà del consacrato è un cammino di serenità interiore, che permette di vivere
nella complessità delle situazioni, anche se disagiate e stressanti della nostra vita, con
perseveranza e fiducia. Non occorre cercare particolari forme di rinuncia. La vita di
comunità con quanto di amore e di dedizione ci chiede ogni giorno, è la via della nostra
sequela di Gesù povero e umile. L’insoddisfazione nasce dal rifiuto interiore di una strada
difficile, talvolta dolorosa, normalmente stancante, cercando nelle diverse forme di fuga
delle risposte. La kenosis ci dice che bisogna sapere starci dentro con amore, nonostante
tutto, per trarre da questo sacrificio la forza di risorgere sempre a una nuova speranza.
Concludo con un testo illuminante che appartiene a Lacordaire, che descrive così
la vita di una persona consacrata al Signore:
“Vivere in mezzo al mondo senza alcun desiderio per i suoi piaceri, essere membro
d’ogni famiglia senza appartenere da alcuna d’esse, condividere ogni sofferenza, essere
messo a parte d’ogni segreto, guarire ogni ferita, andare ogni giorno dagli uomini a Dio per
offrirgli la loro devozione e le loro preghiere e tornare da Dio agli uomini per portare ad
essi il suo perdono e la sua speranza, avere un cuore d’acciaio per la castità e un cuore di
carne per la carità. Insegnare e perdonare, consolare e benedire, ed essere benedetto per
sempre.
O Dio che genere di vita è questa? E’ la tua vita, Gesù Cristo”.