Meditazione di Mons. Pizzaballa (18/02/2024)

[ I Domenica di Quaresima, anno B ]

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Allora è necessario il deserto, dove muovere i passi di una fede incarnata, dove conoscere Dio non più per sentito dire (cfr Gb 42,5), ma per esperienza personale.

Il racconto delle tentazioni, con cui si apre il cammino della Quaresima, nel Vangelo di Marco sono raccontate in modo molto succinto. Due soli versetti, secondo cui, subito dopo il battesimo da parte di Giovanni, “Gesù viene sospinto nel deserto, dove rimane quaranta giorni tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (Mc 1,12-13). Marco non racconta il contenuto delle tentazioni, né il dialogo di Gesù con il tentatore. L’accento, come vedremo, è posto su altro.

La liturgia della Parola di questo anno liturgico, però, aggiunge a questi pochi versetti anche quelli successivi, che di per sé non riguardano l’episodio delle tentazioni, ma che possono fornirne una ulteriore chiave di lettura. È una Parola già ascoltata nella III Domenica del Tempo Ordinario, quella che ci propone le prime parole di Gesù nella sua vita pubblica: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15).

Perché questo accostamento?

L’inizio della vita pubblica di Gesù non avviene immediatamente dopo il Battesimo: Gesù avrebbe potuto partire da lì, da quella Parola ascoltata dal Padre che lo proclamava Figlio amato. Avrebbe potuto partire da lì per portare a tutti questa buona notizia, per far risuonare in ogni luogo la voce del Padre.

Invece lo Spirito spinge Gesù nel deserto, nel luogo della prova e della tentazione, perché quella Parola ascoltata dal Padre aveva bisogno di scendere nella sua carne, nella sua vita.

Abbiamo detto che Marco non racconta il contenuto delle tentazioni, ma fa intendere che tutto il periodo trascorso da Gesù nel deserto è stato una lotta, una prova continua. Un luogo cioè dove la Parola ascoltata entra a contatto con la vita, con la debolezza, con il limite: e lì si vede se “tiene”, se resiste, se è vera. Lì si vede se davvero ci fidiamo, se nel momento della prova continuiamo ad ascoltare e a fidarci, oppure se scegliamo altre strade, se preferiamo una scorciatoia, se facciamo da noi stessi.

Un conto è la teoria della nostra fede, la professione del nostro credere. Altra cosa è l’incontro della fede con gli eventi della vita, quando non sempre o non subito la Parola sembra combaciare con ciò che ci accade.

Allora è necessario il deserto, dove muovere i passi di una fede incarnata, dove conoscere Dio non più per sentito dire (cfr Gb 42,5), ma per esperienza personale.

In fondo, non è altra cosa da quanto abbiamo visto domenica scorsa, con la guarigione del lebbroso (Mc 1, 40-45). Gesù lo guarisce e poi gli chiede di rimanere in silenzio, di custodire il piccolo seme della nuova fede che lo abita, perché possa mettere radici. Ma quest’uomo non resiste alla tentazione di parole “facili”, che non sono scese in profondità, che non sono passate per la prova.

Domenica scorsa dicevamo che solo da quel silenzio possono nascere parole guarite.

Ed è esattamente quello che vediamo oggi: dal silenzio di Gesù, che lentamente impasta la propria vita con la fede nel Padre, nascono quelle parole nuove che inaugurano il suo percorso pubblico, parole che aprono un percorso di speranza per tutti coloro che ascoltano: “Convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15).

Convertirsi, dicevamo, è una grande parola di speranza, è la possibilità offerta a tutti di iniziare una vita nuova. Nel deserto Gesù sperimenta che questo è stato possibile per Lui, ed ora lo annuncia a tutti.

La vita nuova, iniziata nel deserto, è fatta intravvedere dall’evangelista Marco con un’immagine suggestiva: dice infatti che nel deserto Gesù stava con le bestie selvatiche e che gli angeli lo servivano (Mc 1,13).

Bestie selvatiche e angeli rappresentano i due estremi più opposti che si possano trovare nella vita: l’altezza più sublime e la bassezza più umile.

Ebbene, questi opposti possono trovare pace e convivere insieme, senza più timore.

Ma quest’immagine, di bestie e di angeli, ci riporta anche ad un passo dell’Antico Testamento, un passo che racconta anch’esso una situazione di prova, una tentazione. Il profeta Daniele trasgredisce l’ordine del re Dario che chiede di non adorare altro Dio all’infuori di lui e così viene gettato nella fossa dei leoni, perché venga sbranato (Dn 6). Ma quando, il giorno dopo, la fossa viene riaperta, Daniele ne esce sano e salvo, e può affermare che Dio ha mandato il suo angelo, che ha chiuso la bocca dei leoni (Dn 6,22) e lo ha salvato dalla morte.

Perché chi rimane nella prova con fiducia, sperimenta che il male non ha potere su di lui.

Lì il Signore si fa presente con la sua tenerezza.

(dal sito Patriarcato Latino di Gerusalemme)