«Siate miei testimoni»

«Siate miei testimoni», la Lettera di mons. Nosiglia per la Pasqua 2021

La Pasqua del Signore è la buona notizia che la fede
cristiana accoglie e testimonia secondo il suo comando: «Andate in tutto il mondo e annunciate il vangelo ad
ogni persona» (cfr. Mc 16,15).
«Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo
si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di
fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede. È meglio essere cristiano
senza dirlo che proclamarlo senza esserlo». Quest’affermazione è di Sant’Ignazio di Antiochia (Lettera agli Efesini, 14-15), padre della Chiesa e martire dei primi secoli cristiani, sulla testimonianza di Cristo risorto
speranza del mondo, come linea guida dell’impegno
dei cristiani nella nostra società.
Essa sottolinea uno degli aspetti più rilevanti della testimonianza cristiana: la coerenza tra fede e le opere,
cioè il vissuto in sintonia con i valori ideali e con le
esigenze morali delle persone e della comunità. Coerenza che parte dal guardare e imitare Gesù Cristo, il
testimone fedele di Dio, perché in lui, Uomo perfetto
e Figlio di Dio, c’è la piena sintonia tra fede e vita. Lo
riconoscevano anche i suoi avversari, che dicevano di
lui: «Tu Maestro non guardi in faccia nessuno e ti comporti con libertà, non hai paura dei potenti, ami la verità
e la segui con coraggio» (cfr. Mc 12,13-17).

Testimoni di una persona: Gesù Cristo risorto

Per questo si parla di testimoni di Gesù risorto, non
solo dei suoi insegnamenti ma della sua persona, di
lui come persona reale e vivente. La prima e concreta
frontiera di questa testimonianza è dunque la vita di
ogni giorno, dove possiamo confessare la nostra fede
in Cristo, commisurando al suo esempio i nostri comportamenti e le scelte che riguardano ogni ambito del
nostro lavoro e impegno. E qui facciamo risuonare il
testo centrale della Prima lettera di Pietro, con l’esortazione dell’Apostolo: «Chi potrà farvi del male, se sarete
ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non
turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori,
pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia
fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza,
perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi,
rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la
volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che
facendo il male» (1Pt 3,13-17).
Al centro del brano si parla di speranza che è in noi. Di
quale speranza si tratta? Di speranza vive ogni uomo
e non ne può fare a meno, ogni giorno. In pratica è
come l’aria che respiriamo. Spesso è legata a esperienze forti della vita: gli affetti, le relazioni, il lavoro e
la famiglia, la festa, ma anche il dolore e la sofferenza.
Si tratta per lo più di speranze individuali o nell’ambito
di un progresso sociale, anche se oggi si vede sempre
meno un legame tra ciò che uno spera per se stesso e
ciò che vorrebbe fosse realizzato nella società.
Domina molto l’individualismo, a scapito di grandi movimenti, un tempo molto attivi e presenti nella storia,
che avevano comunque un certo messianismo per il
futuro. Oggi si preferisce sostare nel presente senza
troppi progetti e trarre dall’oggi le piccole speranze
quotidiane, di cui ci si accontenta, anche se il nostro
cuore è fatto per speranze più grandi e infinite. Soprattutto viene oscurato il carattere etico e religioso della
speranza, in quanto non ci si riferisce più a Dio, ma ci
si chiude dentro un orizzonte storico e parziale, che si
accontenta di risultati spesso deludenti, che tarpano le
ali dell’entusiasmo e dell’apertura fiduciosa al domani.
Qui emerge la differenza cristiana, perché per i credenti la speranza non è chiusa in se stessa o nel tempo