Commento al Vangelo Marco 9,30-37.(22/09/24)

In quel tempo attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».


Gesù è in viaggio con i suoi discepoli e attraversa la Galilea, dice l’inizio del brano di questa domenica (v. 30). Un viaggio che non è solo fisico, ma anche di conoscenza. Infatti egli “insegnava ai suoi discepoli” (v. 31); e così cerca di introdurli, insieme a lui, nel mistero che sta per compiere a Gerusalemme, dove il suo viaggio tende.

Aveva già abbozzato una prima volta questo discorso nuovo, che caratterizza la seconda parte del racconto di Marco, poco prima, nei versetti che abbiamo ascoltato domenica scorsa. Ne aveva anche misurato la netta opposizione di Pietro. Ora torna sull’argomento facendo ricorso a parole nuove: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini…” (v. 31). Un’espressione curiosa, soprattutto a motivo di quel presente (viene consegnato), che sembra indicare non solo l’esito, ma anche il cammino: il Figlio dell’uomo farà esperienza di una morte violenta a Gerusalemme, consegnato nelle mani di chi lo ucciderà, per poi risorgere “dopo tre giorni” (v. 31). Ma quella consegna è già avvenuta, e non si limita al consegnarsi nelle mani di coloro che lo uccideranno: è dono di sé all’umanità intera, già ora. Indica il cuore della sua missione: Gesù è venuto a consegnarsi nelle mani degli uomini, nelle nostre mani.

Egli si consegna, che significa anche: si espone al tradimento, come il verbo paradídomi (essere consegnato/tradito) lascia intendere; e il primo tradimento avviene da parte dei suoi, che a quell’annuncio rispondono prima con incomprensione e timore di interrogarlo (v. 32); poi con una discussione che non poteva essere più fuori luogo.

Giunti a Cafarnao, quando furono in casa, Gesù interroga i suoi discepoli sulla ragione del loro contendere mentre erano per via (v. 33). Una discussione che non riguardava le sue parole, quasi si fossero confrontati per cercare di comprenderle. Ne erano ben lontani, e alla domanda di Gesù reagiscono tacendo.

Lungo la strada, infatti, avevano discusso su “chi tra loro fosse più grande (méizon)” (v. 34). La distanza tra Gesù e i suoi non poteva essere più abissale e dolorosa per il Maestro: mentre questi annuncia la sua fine violenta, i suoi pensano alle gerarchie e a chi toccherà la preminenza che gli riconoscevano. Una discussione questa che, purtroppo, è ancora in atto tra le chiese, come sanno bene quanti operano in campo ecumenico. A duemila anni di distanza, si discute ancora di primati!

Ecco il primo tradimento di Gesù: pensare la comunità cristiana secondo una logica che non è stata la sua. E mentre il Maestro si prepara alla morte, i suoi pensano agli assetti comunitari che seguiranno, a chi assumerà la leadership; e qui sulla terra, non “nel regno dei cieli”, come dirà Matteo, cercando forse di attutire lo scandalo (18,1). Ma quello che è più grave è il criterio in base al quale si crede di dover decidere. La discussione verte su chi era “il più grande”. Eppure Gesù non aveva mai mostrato di voler essere “più grande”, facendo ricorso a scale di valori e comparativi! Si sarà forse chiesto da chi avevano imparato a ragionare in quel modo e secondo quella logica mondana, come Pietro, a reazione del primo annuncio della passione (8,33). Ora però non è solo Pietro a contraddire la logica della croce, ma tutti i discepoli.

Gesù, però, ancora una volta va incontro a quella comunità disorientata. Assume l’atteggiamento del maestro e li chiama ancora una volta a sé, con un atteggiamento carico di affetto e di pazienza: “Sedutosi, chiamò a sé i Dodici” (v. 35). Egli chiama e richiama, in una vocazione mai finita.

Riprende così l’insegnamento sullo statuto del discepolo, che aveva iniziato all’indomani della reazione di Pietro. Allora aveva detto: “Se qualcuno vuol venire dietro a me…” (8,34). Ora continua, con il medesimo tono: “Se qualcuno vuol essere…” (v. 35). Dopo aver delineato le condizioni del discepolato, da assumersi in libertà ma con chiarezza – se qualcuno vuole! – ora precisa i tratti di chi nella comunità dei discepoli volesse o fosse chiamato ad assumere un ruolo di responsabilità.

Innanzitutto precisa che non si tratta di essere “più grande”, non assecondando chi vuole istituire relazioni descritte dal comparativo, deleterio in una qualsiasi comunità perché istituisce confronti. Parla invece di un “primo (prótos)”. Nella chiesa non c’è spazio per uno che sia “più grande” di un altro, ma tutti sono disposti su un medesimo piano, in un’unica linea che conosce semmai un primo, uno che apre la strada e facilita il cammino altrui. Questi però è tale perché “ultimo” e si caratterizza nell’atto del servire: “Sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (v. 35). Il servizio concreto è ciò che custodisce anche il “primo” nel vivere il ministero affidatogli secondo il cuore del Maestro.

In una logica cristiana, primi si è nella misura in cui, ogni giorno, nelle piccole come nelle grandi cose, ci si fa concretamente servi dei fratelli e delle sorelle. Questo è il vero e autentico primato nella chiesa. Poco oltre Gesù infatti parlerà della tentazione di quei farisei che ambivano ai primi posti, che amano “avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti” (12,39). Primo è chi si fa concretamente servo dell’altro.

Trattandosi però di un discorso difficile da comprendere, Gesù compie un gesto, che ha il sapore del mimo profetico: prende un bambino – un soggetto ritenuto insignificante e senza diritti nella società del tempo – e lo mette in mezzo, indicando a chi spetta quella collocazione. Il luogo centrale, nella comunità cristiana, non è di chi si crede “più grande”, appartiene invece al più piccolo. Chi presiede è così invitato a non tenere per sé uno spazio che non gli spetta.

Quindi Gesù abbraccia il piccolo, indicando così il segno del servizio autentico, che è accoglienza prima che soccorso di un bisogno concreto. In quell’abbraccio c’è l’effetto del Maestro che indica così la via della cura amorosa.

Infine Gesù sembra identificarsi in quel piccolo: “Chi accoglie uno solo di questi piccoli nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (v. 37). Indica così che al centro, in quel piccolo, c’è anche lui, il Piccolo, e in lui il Padre. Rivela così che il centro appartiene anche al Signore e che ogni volta che l’autorità lo occupa, toglie spazio al Signore e sfigura la comunità.

Gesù indica così la via per comprendere nel concreto della via la croce che i Dodici non avevano compreso: la via dell’autorità che si esprime nell’accoglienza e nel servizio dell’altro, la via per cui si passa dalla rivalità – il desiderio di essere “più grande” – all’accoglienza e alla comunione. Perché solo la comprensione della croce apre alla vera autorità cristiana. Chi non comprende la logica della croce non potrà neppure essere quel primo, che è tale perché ultimo e servo di tutti.

Sabino Chialà (Monastero di Bose)