L’abito fa il monaco?

“Come mi vesto oggi?”, sottinteso “per sentirmi a mio agio?”  Armadi e cassetti forniranno presto risposta alla nostra domanda. Quello che per oggi scegliamo, se lo volessimo interrogare, probabilmente potrebbe raccontarci storie intriganti ma non sempre affascinanti.

Un paio di jeans, una t-short, una camicetta, una gonna prima di infilarsi nel nostro armadio, possono aver percorso  migliaia di km, da un punto all’altro del nostro pianeta. Quella maglietta di cotone, quel jeans magari porta ricordi della Cina o dell’India o del Brasile… per la materia prima che lì viene coltivata; della Turchia dove il cotone viene filato; di Taiwan dove viene tessuto; della Cina dove la stoffa viene tinta con colori provenienti dalla Polonia; delle operaie e degli operai, non di rado minori, del Bangladesh, della Cambogia, dell’Etiopia… che lo cuciono; degli USA o dell’Italia dove viene applicata l’etichetta “Made in…”  – illudendoci molte volte che sia un prodotto nostrano.                                                                                                                Quei capi di abbigliamento potrebbero avere addosso storie di lavoro sub-appaltato e di lavoratori sottoposti a sfruttamento pesantissimo: 12 – 14 ore di lavoro al giorno; paghe irrisorie; ambienti inadatti e pericolosi; diritti minimi negati, processi di lavorazione altamente pericolosi…

Senza contare la pressione sull’ambiente necessaria alla produzione della materia prima su larga scala –                 terre, acqua, fertilizzanti, trasporti…- e poi allo smaltimento del capo dismesso.

Magari proprio il jeans che ho deciso di infilarmi, anche se appena comprato, è già sdrucito, scolorito, stazzonato. Come ha preso a dettare la moda dagli anni ’80, quando il jeans rovinato, consunto ha cominciato a essere indossato come simbolo di ribellione al sistema borghese dominante e di uno stile di vita alternativo. Perché in qualche modo “l’abito fa il monaco”, è decorazione, precede la parola e il gesto, esprime, fa vedere qualcosa di noi, della nostra personalità.

Alla crescente e vertiginosa richiesta di jeans “invecchiati”, partita appunto quaranta anni fa, l’industria dell’abbigliamento ha risposto prontamente adottando tecniche di produzione rapide, economiche ma molto rischiose per i lavoratori. Il risultato desiderato è stato ottenuto trattando il tessuto denim (tipo di tessuto particolarmente resistente) dei jeans col ricorso a tecniche come la sabbiatura. Sui jeans viene sparata, ad altissima pressione, della sabbiolina, che gratta la stoffa invecchiandola precocemente, provocandone le scoloriture e gli assottigliamenti, gli strappi voluti.

La grande quantità di polvere che si produce durante il processo di sabbiatura, in ambienti inadatti e senza adeguata protezione per i lavoratori, è estremamente dannosa per le vie respiratorie, causa di silicosi, malattia polmonare potenzialmente letale in breve tempo, perchè quel pulviscolo penetrato negli alveoli polmonari rende difficile la respirazione. L’eccessivo affaticamento del cuore che ne deriva può portare alla morte. Come purtroppo è avvenuto -e probabilmente ancora avviene- in troppi casi.

Una campagna internazionale di sensibilizzazione su questo grave problema, promossa un decennio fa, ha portato alla proibizione del processo di sabbiatura jeans in molti paesi, ma varie ONG e sindacati temono che sia praticata ancora oggi in molte realtà come Cina, India, Bangladesh, Pakistan, Messico, Egitto…

L’attuale organizzazione della produzione di abiti, infatti, costruita su una lunga serie di sub-appalti, porta spesso la lavorazione in Paesi in cui mancano le più elementari condizioni di igiene e sicurezza, ovviamente in assenza dei più elementari diritti sul lavoro.

Eppure sono possibili alternative, almeno per ottenere l’effetto invecchiamento voluto senza danni per i lavoratori, come l’utilizzo del laser, procedimento che sembra preferito da tempo da alcuni grandi marchi.

Se poi si pensa che ogni anno vengono messi sul mercato 150 miliardi (sic!) di capi di abbigliamento (escludendo dal conto accessori come cinture, borse…), uno spaventoso inimmaginabile eccesso rispetto al fabbisogno di 7 miliardi di abitanti, e che il 40%  di quelli rimane invenduto e diventa in gran parte rifiuto tessile difficilmente smaltibile (per la presenza di fibre e elementi eterogeni in uno stesso capo), è evidente che la pressione sull’ambiente, dalla sua produzione al trattamento dei rifiuti, diventa sempre  più insostenibile (Fb. To2031,  23/04/21. Torino va di moda – Tessile e saper fare artigianale)

E vero che alcune grandi aziende tessili stanno modificando la loro filiera produttiva, ad esempio ricorrendo all’utilizzo della canapa – che rispetto al cotone richiede molta meno acqua per la sua coltivazione e lavorazione, minore uso di pesticidi- e che dichiarano di prestare attenzione alla sicurezza e al rispetto dei diritti dei lavoratori tessili, ma è anche vero che nel settore del fast fashion permangono livelli di sfruttamento della manodopera e delle risorse naturali assolutamente ingiustificabili e insostenibili. Non si spiega altrimenti il prezzo irrisorio di un abito che troviamo facilmente in un grande magazzino.

Può fare qualcosa un consumatore per non essere complice e smettere di alimentare questa spirale perversa?

* Si informa, prima dell’acquisto, per poter compiere scelte che premino quelle produzioni più rispettose del lavoro e dell’ambiente, che rifuggono dal concetto dell’usa e getta, di una rapida e programmata obsolescenza, volutamente incentivata dai prezzi stracciati dei grandi magazzini.

* Quindi deve esigere una sicura tracciabilità della catena di fornitura, dalla sorgente al negozio, con informazioni precise sull’origine dei materiali usati, delle materie chimiche impiegate, dove e in che condizioni di lavoro è stato prodotto quel capo… Una corretta etichettatura dovrebbe fornire queste prime essenziali informazioni (un po’ come avviene per i prodotti alimentari).

* Diffida di prezzi troppo bassi (perché vuol dire che il costo reale è stato scaricato sul lavoro, dove “la persona umana viene trattata come un mezzo e non come un fine”, cf. Fratelli tutti).

* Può optare per una maglietta … che costa di più ma che durerà anche di più, magari acquistata in un negozio di prossimità dove il rivenditore sa dare ragione della sua storia.

* Può frequentare negozi che rivendono abiti di seconda mano, sempre più diffusi anche nella nostra città.            * E, perché no, ricorre alla riparazione sartoriale, piuttosto comune nelle nostre abitudini fino a poco tempo fa.

Sono comportamenti etici, consapevolezze, che vanno incentivati, motivati e promossi anche nelle scuole, in sintonia con quel movimento di Greta che ha visto protagonisti proprio tanti giovani, il target più inseguito dai grandi brand.                                                                                                                Ma ognuno di noi può riesaminare il proprio stile di vita. E se è vero che l’abbigliamento riflette la nostra personalità, è pur vero che non possiamo cambiare personalità ogni giorno, inseguendo una moda sempre più mutevole.

L’utente finale, il consumatore, con le sue scelte può davvero fare la differenza.

Dati ripresi dai siti:

Dalla pianta del cotone a un paio di Jeans

Avvenire 27/11/2010

Una penna spuntata

Fb. To2031,  23/04/21. Torino va di moda – Tessile e saper fare artigianale

Aime Osvaldo