Il cristiano: uomo in cammino

Quelli dellaVIA”

In At 9,2 si trova un primo tentativo di definizione dei discepoli di Gesù, che solo più tardi saranno poi chiamati cristiani. Si dice che Saulo, che non è ancora Paolo, va dal sommo sacerdote e gli chiede delle lettere per le sinagoghe di Damasco “al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, quelli della via, che avesse trovato”. C’è il termine via, un termine importantissimo perché costantemente Luca nel suo vangelo parla della via che va verso Gerusalemme. Gli Atti sono questa via della Parola che deve arrivare ai confini del mondo. Ma in Gv 14,6 Gesù dice: “Io sono la via, la verità, la vita”, lavia è Cristo stesso. Il cristiano è uno che è in cammino, dentro una via che è Cristo stesso.

Nella vita si può camminare in modo diverso; le tappe fondamentali della vita, a grandi linee, sono le stesse per ogni uomo. Tutti veniamo al mondo da un padre, da una madre, siamo bambini, impariamo a parlare, a conoscerci, diventiamo adolescenti, impariamo a riconoscere la nostra sessualità, la gioia e la fatica dell’amare, impariamo la gioia e la fatica del lavoro, conosciamo la sofferenza e, a un certo punto la morte. Ma come, per quale via?

Il cammino di Lot e il cammino di Abramo

Diversi sono ad esempio i modi di camminare di Abramo e di Lot (Gen. 12-13). L’itinerario geografico è lo stesso, l’itinerario spirituale è completamente diverso. Dio chiama Abramo alla vita e lo chiama a lasciare la propria terra, a partire e a incamminarsi verso una terra che lui stesso gli indicherà. Abramo, uomo di ascolto, obbedisce alla parola del Signore: “partì, come gli aveva ordinato il Signore” (Gen 12,4), ma il testo aggiunge “con lui partì Lot, figlio di un suo fratello”. Fanno la stessa strada, tuttavia non nello stesso modo. Se identico è l’itinerario geografico, assai diverso è quello spirituale. Spesso quando si pensa a cosa di grande ha fatto Abramo, si risponde: “Ha lasciato la sua terra, la casa di suo padre ed è partito per una terra che non conosceva”. È vero, ma tutto questo lo ha fatto anche Lot; anche Lot ha lasciato tutto, anche Lot è partito senza sapere quando, dove e come avrebbe terminato il suo vagabondare. Nel secolo scorso migliaia di italiani hanno lasciato la loro terra, i loro parenti per partire in cerca di lavoro, di una vita migliore nel nord Europa, in America, o anche solo nell’Italia del nord. Migliaia di africani e asiatici sbarcano quotidianamente nella nostra terra, abbandonando veramente tutto in cerca di una vita più dignitosa. E allora dove sta la grandezza di Abramo? In che cosa il suo cammino è diverso? Lot è uno dei tanti uomini che nel corso dei secoli sono stati costretti a emigrare, lasciando affetti, tradizioni culturali e religiose, per partire in cerca di fortuna. Per Lot, come per Abramo, si tratta di trovare pascoli adatti per le proprie greggi. Quando, dopo un lungo vagabondare, i mandriani di Lot entrano in conflitto con quello di Abramo, i due decidono di separarsi e allora – dice il racconto: “Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte, era come il giardino del Signore e Lot scelse per sé tutta la valle del Giordano e trasportò le tende verso oriente” (Gen 13,10-11). Lot sa quello che vuole, è uno che vive la vita come una conquista, guarda a ciò che è meglio per sé. In termini evangelici si può dire: Lot è uno che vuole salvare la propria vita. Ma ci viene presentato anche un altro modo di camminare lungo quella via che conduce alla terra promessa. È il camminare di Abramo che parte in obbedienza a Qualcuno che lo ha chiamato e che vive in ogni istante alla presenza di questo Signore che l’ha chiamato e che tutto gli ha donato. Abramo vive la vita non come qualcosa che gli appartiene, ma come dono. Tutto è dono (più tardi, Paolo chiederà “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?” 1 Cor, 4, 7). Abramo costruisce un altare a ogni tappa del suo cammino, ascolta, obbedisce, ringrazia. Quando i suoi mandriani e quelli di Lot litigano, mette al di sopra di tutto la pace, lascia che sia Lot a scegliere purché vi sia pace.

Si possono vedere delineati in queste due figure due diversi modi di vivere la vita. Tutti gli uomini nascono, crescono, imparano a parlare, a pensare, a conoscere il proprio corpo, conoscono la gioia e la fatica del lavoro, dell’impegno, dell’amore. E tutti conoscono il passare degli anni, la maturità, il venir meno delle forze, la malattia, la vecchiaia, la morte. Questo è l’itinerario geografico più o meno identico per ogni uomo. Ma, come abbiamo visto, c’è un diverso modo di vivere questo viaggio nell’esistenza; c’è un camminare nella fede, credendo che il nostro cammino è stato voluto, desiderato dal Signore, credendo che è lui che ci guida e ci indica il cammino istante, per istante.

Alla sequela di Gesù, una via stretta …

Il Signore Gesù ci ha mostrato come fare della nostra vita un’offerta al Padre, divenendo anche noi, come Lui, pane spezzato e distribuito. Occorre allora una grande vigilanza nel nostro cammino quotidiano. Perseverando come ci invita Luca (At 2,42) nell’ascolto della Parola di Dio, nella comunione fraterna, nell’eucaristia, nella preghiera. Ogni comunità cristiana, ogni parrocchia dovrebbe interrogarsi su questi quattro punti.
Il termine parrocchia deriva da pároikos che nel NT significa “viandante, pellegrino, forestiero”. La parrocchia è il luogo di ritrovo di quelli che si riconoscono viandanti in questo mondo, dietro a Gesù e che non pretendono di avere una dimora stabile in questo mondo, nel quotidiano convincimento che siamo su questa terra soltanto di passaggio. Ci sono, però, dentro di noi illusioni di onnipotenza e di eternità. Abbiamo mangiato tutti quel cibo afferrato da Adamo ed Eva che li faceva illudere di essere onnipotenti, di sapere tutto, di potere tutto, di vivere in eterno. La fede cristiana porta a una visione disincantata sulla realtà. Non siamo per sempre, il mondo non ci appartiene e neanche l’altro ci appartiene. Anche noi non apparteniamo a noi stessi, ma ci siamo stati dati in dono. Ne consegue una forte relativizzazione di tante nostre pretese. Non costruiamo noi sulla terra il regno dei cieli. Gettiamo dei semi di bontà, di amore, di giustizia, a volte senza vederne il frutto. Non secondo la logica del “tutto e subito, qui e ora”.

La zizzania c’è, dentro di noi, nella chiesa, nel mondo. Bisogna curare il buon grano, con amore e pazienza, senza condannare gli altri. Siamo chiamati a porre un segno di amore gratuito: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). La ricompensa è già stata data, in anticipo. Allora possiamo essere testimoni di amore e di speranza in mezzo agli uomini, nella fedeltà alla terra e nell’attesa del regno.

Anche il passo di Marco 6,7-13 parla del cristiano come un uomo in cammino, per una via stretta. Racconta di Gesù, che ha cominciato a inviare i dodici, come invia ciascuno di noi nel quotidiano, a predicare l’evangelo e a contrastare l’azione del demonio. Gesù prepara i suoi, prepara i dodici alla missione in una condizione di radicale spogliamento: “Ordinò loro che, oltre il bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa”. E’ chiaro fin da principio che l’inviato non è autosufficiente, non può contare su di sé, non può avere alcun espediente per mettersi in salvo, per salvare la propria vita. In questo il discepolo “sta” con il Signore; come Gesù si lascia salvare dal Padre, non pretende di salvare da sé la propria vita, cioè di darle un senso; lascia che sia il Signore a salvarlo, a riempire di senso la sua esistenza. Il Signore ci chiede di leggere con spirito di fede in questa povertà, in questa condizione di radicale insufficienza, il disegno d’amore di Dio che fin da principio, prima di una nostra risposta, ci ha eletto, messo a parte, fatti poveri perché troviamo in lui la nostra ricchezza e perché nulla ci sia più caro di Cristo Gesù. Viandanti appoggiati solo al bastone. I padri della chiesa, leggendo l’evangelo, hanno visto raffigurato in questo bastone la croce. Ciò che occorre portare è la croce. Nient’altro, oltre ad essa, nient’altro che la croce è ciò su cui possiamo contare, su cui ci possiamo appoggiare lungo il nostro cammino. La croce che pesa sulle nostre spalle paradossalmente è la nostra forza, la nostra ricchezza.

…. verso l’alba della Pasqua

E non è mai la nostra povertà, la nostra miseria che ci sbarra il cammino, non è neppure il nostro peccato, le quotidiane cadute da cui sempre ci possiamo rialzare. Il Signore già sapeva e conosceva. Ma il rigetto della croce, questo sì, ci sbarra la strada. Se portiamo con noi il bastone, la nostra croce, il peso della nostra radicale miseria e delle contraddizioni che sono dentro di noi lasciandoci illuminare dalla Pasqua, dalla resurrezione, dalla vita che nasce dal sepolcro, allora potremo sopportare anche il peso delle contraddizioni e del rifiuto che ci vengono da fuori da noi senza stupirci né scandalizzarci se non veniamo accolti, se siamo fraintesi o rifiutati. Ma questa croce che ci accompagna, è “croce di luce”, come dicevano i padri, perché il crocifisso è risorto, perché con l’alba della Pasqua nella nostra vita sono state immesse le energie della resurrezione.

Prima di stare sulla croce, Gesù è stato nel rifiuto, nell’incomprensione dei suoi, nella condanna di chi faceva risalire al demonio ogni sua opera e parola, nell’abbandono degli amici. Ma Gesù non si ferma, continua a fare il bene, a esercitare misericordia, a seminare il buon seme della parola in misura sovrabbondante. E al discepolo cui viene preannunciata l’eventualità del rigetto è chiesto di non lasciarsi sgomentare dal rifiuto e soprattutto di non lasciarsi sedurre e irretire in una logica non evangelica quando non viene accolto né capito. É già difficile restare agnelli in mezzo agli agnelli, ma il Signore ci chiede di restare agnelli anche in mezzo ai lupi. Il discepolo, che non si attende né riconoscimenti, né ricompense da parte degli uomini continua ad annunciare l’evangelo nella libertà, senza imporsi, nella confidenza amorosa nel suo Signore che solo discerne i cuori e appoggiandosi con ancor più forza al bastone della croce.

Il rischio della ritualità quotidiana

Lungo il nostro cammino conosciamo la tentazione di fermarci, di seguire altre vie, o addirittura di tornare indietro. Troviamo l’esempio di una chiesa che si è stancata di camminare nel libro dell’Apocalisse al c. 3,14-22: è la chiesa di Laodicea che viene rimproverata dal Signore. Perché si è lasciata soffocare dalla normalità, dalla quotidianità. Non cerca più nulla, non desidera niente. Sta bene così com’è, non è né fredda, né calda. La sua fede si è intiepidita, la parola di Dio è ridotta a parola accanto a tante altre parole. Alcuni cristiani deridono l’entusiasmo degli altri dicendo: “Dov’è la promessa della venuta del Signore? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2Pt 3,4). Non è cambiato nulla! Siamo sempre allo stesso punto! Si fanno sempre i soliti discorsi!
Pensieri che spesso si affacciano alla nostra mente, ma sono pensieri che intorpidiscono il nostro zelo d’amore per Dio e per i fratelli. Per trarre la chiesa di Laodicea fuori da questo grigiore nel quale tutto sembra inesorabilmente scontato e la vita di fede si riduce alla ripetizione di gesti e di riti formali il Signore la provoca con le sue affermazioni: “Sto per vomitarti dalla mia bocca”, cioè basta! Non ti voglio più così, mi sei diventata insopportabile. Il Signore è stanco della nostra nauseante mediocrità. Questa comunità che si lascia vivere in realtà è morta. Forse si continua a fare ciò che si è sempre fatto, ma senza crederci più. È la reazione di chi è disilluso, di chi forse ha avuto grandi speranze, un grande fervore ma a un certo punto, dinanzi alla crisi, alle difficoltà della vita, ha gettato le armi, ha rinunciato a lottare perché in verità non crede che ne valga la pena.

Lasciarci amare da Lui e amare come Lui

Ma qualunque sia il nostro errore, il nostro passato è sempre possibile ricominciare, ma occorre volgersi in verità al Signore, riconoscere il suo amore per noi e vivere di questo amore.
Chi ama Dio, e ce lo dice l’apostolo Giovanni, vuole ciò che Dio vuole, fa la volontà di Dio e cosa vuole in definitiva Dio? Vuole semplicemente una cosa, vuole che ciascuno di noi ami come lui ama. E qui c’è davvero la novità di Gesù rispetto all’Antico Testamento, rispetto alla Torà: l’amore di Dio non può essere disgiunto dall’amore del prossimo al punto che l’amore per il prossimo è il segno che rivela se uno ha o non ha l’amore di Dio in lui. Giovanni, l’apostolo, può dire: “Se uno dice: io amo Dio, ma non ama il fratello è un mentitore” . Allo stesso modo “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare il Dio che non vede”, sempre nella sua prima lettera, al capitolo 4, versetti 19-20.

Qual è il compito di chi più è avanti nella vita nei confronti dei più giovani?
Come gli esploratori di Nm 13,25-33, inviati nella terra promessa per testimoniare ai fratelli la grandezza dei doni del Signore, così chi di noi ha già percorso una parte del suo cammino dietro a Gesù, sperimentando per grazia in certi momenti qualche cosa della dolcezza e della bellezza del regno, è chiamato a testimoniare agli altri che vale la pena di vivere dietro al Signore Gesù, che già ora sono all’opera le energie della resurrezione, anticipazione di quella vittoria finale e totale su ogni forma di morte, di male, di dolore, di peccato che ora minaccia il nostro cammino. C’è una fatica, c’è una lotta da affrontare, ma vale la pena e già ora se ne vedono i frutti.

Libero riadattamento da: notedipastorale giovanile; il cristiano uomo in cammino (Lisa Cremaschi),

Osvaldo Aime